Il 23 novembre 1980, alle ore 19:34 italiane, un forte terremoto, di magnitudo M 6.9, colpì una vasta area dell’appennino campano-lucano con effetti devastanti soprattutto in Irpinia, tra le province di Avellino, Salerno e Potenza. Nei primi momenti e nei giorni successivi al terremoto, non si riuscirono a fornire notizie precise sull’esatta localizzazione dell’evento per mancanza di dati disponibili in tempo reale, dal momento che allora non esisteva un unico centro di raccolta e di elaborazione dati e un servizio di sorveglianza come quello che oggi l’INGV gestisce.

Le numerose scosse avvenute nelle ore e nei giorni successivi, e che si protrassero per diversi mesi, furono registrate soprattutto grazie ad una rete sismica temporanea installata da ricercatori italiani e stranieri provenienti da Parigi e Cambridge. I sismologi riuscirono a ricavare così informazioni preziose sul processo di rottura del terremoto. Per la prima volta si riconobbe la complessità del fenomeno sismico: non era stato un unico evento a produrre la rottura della crosta terrestre, dalla profondità di 15 km fino alla superficie, ma almeno tre sub-eventi che nell’arco di meno di un minuto avevano rotto, in rapida successione, quattro segmenti di faglia adiacenti. Le repliche del terremoto furono migliaia e si distribuirono lungo tutta la lunghezza di faglia in un volume esteso compreso tra i quattro segmenti di faglia coinvolti. La frattura raggiunse la superficie terrestre generando una scarpata di faglia ben visibile per circa 38 km.

La scossa fu percepita in quasi tutta l’Italia peninsulare dalla Sicilia orientale alla Pianura Padana ed ebbe i suoi massimi effetti distruttivi (grado X scala Mercalli) in sei paesi: Conza della Campania, Lioni e Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino; Castelnuovo di Conza, Laviano e Santomenna, in provincia di Salerno. Distruzioni estese a oltre il 50% del costruito (grado IX scala Mercalli) furono osservate in altri 9 Comuni: 7 in provincia di Avellino e 2 in provincia di Potenza. In più di 490 Comuni e località il terremoto causò crolli, gravi lesioni e danni più lievi (gradi VIII-VI scala Mercalli).

La provincia più colpita fu quella di Avellino: tutti i suoi 119 Comuni risultarono più o meno danneggiati. Nel centro storico di Conza della Campania crollarono pressoché completamente la cattedrale, l’annesso campanile e la chiesa delle Anime del Purgatorio. A Lioni crollarono quasi totalmente tutti i vecchi edifici costruiti con ciottoli e malte, ma anche un elevato numero di fabbricati moderni in cemento armato; ad una stima provvisoria risultò distrutto circa il 75% del patrimonio abitativo. Nell’antico borgo di Sant’Angelo dei Lombardi il terremoto causò la totale distruzione degli edifici antichi; crollò quasi completamente l’ospedale e la scuola media riportò gravi danni. A Calabritto crollò interamente la chiesa madre della SS. Trinità e a Caposele anche il ponte sul fiume Sele subì gravi danni. A Torella dei Lombardi crollò il 90% degli edifici della via principale.

Per quel che riguarda le province di Salerno e Potenza, a Laviano l’edificazione su un ripido pendio determinò una percentuale di distruzioni altissima, causata principalmente da fenomeni di trascinamento. A Santomenna circa il 90% del patrimonio edilizio esistente fu distrutto o subì crolli parziali. A Pescopagano i rinforzi con catene metalliche applicati a diversi edifici dopo il terremoto del 1930 evitarono crolli disastrosi.

Anche Napoli, benché lontana dall’area epicentrale, subì danni rilevanti e in molti casi gravissimi. Nel rione di Poggioreale crollò completamente un edificio di 9 piani, abitato da una ventina di famiglie.

Tra i centri abitati più grandi che subirono crolli parziali, dissesti e gravi danni strutturali ci furono: Avellino, Potenza, Salerno, Benevento e Caserta, nella cui reggia borbonica settecentesca del Vanvitelli si aggravarono i dissesti preesistenti.